“Anatomia della risata cattiva: satira, potere e complicità”

A colloquio con Valentina Pisanty


David Bidussa David Bidussa
Emanuela Colaci Emanuela Colaci
Articolo tratto dal N. 36 di Di meme in peggio Immagine copertina della newsletter

Valentina Pisanty, saggista e docente di semiotica all’Università di Bergamo, con il saggio La risata fascista (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2023) ha ricostruito i meccanismi dell’umorismo nel regime fascista, dimostrando come la risata potesse essere manipolata per rafforzare la violenza simbolica e marginalizzare il dissenso. A partire da quella ricerca, le abbiamo chiesto di aiutarci a decifrare le trasformazioni della satira nel presente: cos’è rimasto di quella “risata cattiva”? E che forme può prendere oggi una risata che non deride i deboli, ma disinnesca il potere?

Con la sua ricerca “La risata fascista” ha dimostrato che con il Novecento e soprattutto con i totalitarismi cambia qualcosa, nel rapporto tra potere e utilizzo della satira come derisione. Cosa cambia?

La risata del potere diventa “cattiva”. Negli anni del fascismo vengono chiuse molte delle riviste autenticamente satiriche e c’è una campagna fascista contro i “mormorii”, contro tutte le forme di motteggio che prendevano di mira il potere. Si sviluppa, in quegli anni, una forma di umorismo diretto, una forma di pseudocomicità molto più aggressiva ai danni non più del potere, bensì delle “minoranze”. Sotto l’apparenza di un umorismo goliardico — che il fascismo pretendeva di incarnare — si celava in realtà una risata cattiva, ben lontana dalla vera goliardia.

È proprio su questa risata, non solo tollerata ma promossa dal regime, che ho concentrato il mio saggio. Il mio intento era comprendere cosa la rendesse tale, nel contesto di una ricerca più ampia sul significato della risata e sui meccanismi dell’umorismo o del suo surrogato. Ho analizzato le vignette apparse sulla Difesa della razza e su quelle poche riviste satiriche permesse dal regime, per distinguere tra la risata consentita e quella proibita. Del resto, l’umorismo è forse il dispositivo semiotico più complesso elaborato dall’essere umano: una forma sofisticata di prestazione cognitiva e affettiva. Ogni meccanismo che mira a suscitare una risata si basa su una dinamica complessa. Al centro c’è sempre uno scontro tra due piani logici incongruenti, che genera una scarica di aggressività repressa. Nell’umorismo più sofisticato e liberatorio, questa aggressività si dissolve grazie all’incongruenza. Ma nel caso della risata fascista, al contrario, l’aggressività viene amplificata e diretta contro una vittima. Ogni dispositivo umoristico implica tre figure: l’autore dello scherzo, la vittima e un complice. Il mio interesse era analizzare proprio il legame tra chi fa ridere e chi ride, a spese della vittima. Perché ogni risata, anche la più innocente, contiene una quota di cattiveria, come diceva Arthur Koestler: una “goccia di adrenalina” che può assumere forme diverse, più o meno violente, a seconda di come viene canalizzata. Nelle vignette fasciste, quella risata cattiva sembra addirittura anticipare la violenza che sarebbe poi seguita.

Se nel ventennio fascista si può parlare di risata cattiva, di che risata possiamo parlare , oggi, con l’orizzonte politico attuale?

Preferisco sempre partire da singoli casi – vignette, meme, testi – perché ogni meccanismo umoristico va analizzato nella sua specificità. La “risata cattiva” del fascismo, per esempio, si riconosce per alcune caratteristiche precise: è violenta, umilia la vittima fino alla sottomissione fisica e non lascia spazio a complicità o autoconsapevolezza. È una risata triviale, che non richiede alcuno sforzo concettuale, solo l’aggressione e il dileggio. Oggi quella stessa dinamica riemerge in forme più sofisticate: battute sessiste o razziste vengono presentate come “scherzi”, coperte da virgolette ironiche. Chi le contesta viene accusato di non capire l’umorismo, spostando la colpa sulla sensibilità altrui. Ma il meccanismo resta lo stesso: violenza mascherata da satira. Oggi assistiamo a forme di umorismo provocatorio e aggressivo che si definiscono “politicamente scorretti”, ma che spesso replicano stereotipi razzisti, sessisti o violenti già ampiamente noti e storicamente compromessi.

A differenza del fascismo, quando questi stereotipi facevano parte del senso comune e venivano apertamente legittimati, oggi non sono più accettabili nel discorso pubblico. Eppure, chi vuole continuare a veicolare quei contenuti, evita la condanna sociale ricorrendo a un escamotage retorico: la pseudovirgolettatura ironica. Si tratta di una strategia in cui l’enunciato offensivo viene pronunciato “come se” fosse uno scherzo, una citazione, un gioco metalinguistico. La battuta razzista, sessista o violenta è identica nella forma, ma viene “messa tra virgolette”, non letteralmente, bensì come atteggiamento implicito: l’autore suggerisce che non bisogna prenderla sul serio, che è tutto un gioco, e che il vero bersaglio è chi non capisce l’ironia. In questo modo, l’aggressione viene dissimulata, e ogni reazione critica viene ridicolizzata: chi si indigna è accusato di essere troppo serio, di non cogliere il secondo livello. È una forma di deresponsabilizzazione comunicativa che conserva tutta la carica violenta del messaggio originario, ma la scarica su un piano ambiguo, in cui è impossibile risalire con certezza all’intenzione dell’emittente. Ma l’effetto resta lo stesso: la risata, pur dichiarata “ironica”, è ancora una volta usata per legittimare l’aggressione. Del resto, i razzisti di oggi conoscono perfettamente questo meccanismo e, in alcuni casi, lo rivendicano apertamente.

La Repubblica Italiana si porta dentro pezzi, diceva Claudio Pavone, in gran parte dell’amministrazione pubblica o della mentalità dello Stato, per cui in un qualche modo esiste una continuità tra Italia fascista e Italia repubblicana. Si può parlare anche in quel caso della satira di elementi che stimolano una continuità di mentalità e non solamente di istituzioni?

Per rispondere in modo approfondito bisognerebbe fare un vero lavoro d’archivio, confrontando le vignette del periodo fascista con quelle delle riviste satiriche del dopoguerra, per capire continuità e rotture. Quando scrivevo il saggio per l’Annale Feltrinelli, mi sono soffermata su Bertoldo, spesso citata come “zona franca” sotto il regime. In realtà, pur con qualche elemento surreale, la rivista perpetuava molti stereotipi sessisti e conformisti, in forma più blanda ma simile a quelli del fascismo. Quella mentalità e quella risata qualunquista sono sopravvissute anche nella satira repubblicana: basti pensare agli africani cannibali, agli ebrei tirchi, alle donne ridotte a ruoli fissi. Molti di questi tratti sono riemersi nella comicità popolare, dai cinepanettoni al Drive In, e ancora oggi dividono il pubblico tra chi ride e chi si indigna. L’umorismo, in fondo, resta un potente indicatore di affinità culturale. Nel caso delle battute di Berlusconi, la risata aveva anche una funzione politica: serviva a legittimare certi contenuti e a rafforzare un linguaggio presentato come dissacrante rispetto alla retorica precedente.

È importante, quando si analizza la risata, capire non solo di chi si ride, ma quali stereotipi vengono rafforzati o messi in crisi. L’umorismo berlusconiano, per esempio, non faceva esplodere lo stereotipo — come può fare la satira più acuta — ma al contrario lo consolidava. Si rideva della donna categorizzata come “inchiavabile“, e in questo modo si rafforzava l’idea che il valore femminile stia nel desiderio maschile. Peggio ancora: chi si indignava per queste battute diventava esso stesso oggetto di scherno. Come nel fascismo, dove si deridevano le femministe accusandole di nascondere, dietro la militanza, il rancore di non essere desiderate. È un meccanismo che funziona sempre allo stesso modo: la risata diventa un’arma per normalizzare la discriminazione e delegittimare chi la contesta.

Quali sono oggi le sfide della satira, se vuole contribuire alla costruzione di uno sguardo critico dal basso verso il potere? Si tratta di un problema di tecnica, di sensibilità culturale, o di altro?

La satira, per essere davvero efficace, dovrebbe riuscire a far esplodere una contraddizione, mettendo in collisione due piani logici incongrui. Ma non basta una semplice risata: quando funziona davvero, entrambi i piani si decostruiscono a vicenda, creando un cortocircuito che invita a riflettere. Penso all’umorismo ebraico, che stimo molto, capace di far ridere sia con sia contro la vittima dello stereotipo. In questi casi, la satira non rafforza i pregiudizi, ma li mette a nudo, facendo ridere anche chi ne è bersaglio. È un gioco di specchi, dove ci si prende in giro tutti, e si arriva perfino a ridere dell’insensatezza delle convenzioni sociali. Naturalmente, tutto dipende dal contesto storico e politico.

Quando il potere è violento e prevaricatore — come in certi scenari contemporanei — la satira diventa un’arma di resistenza diretta, anche grezza, perché risponde a una minaccia reale. Non si può pretendere finezza quando si è sotto attacco. La raffinatezza torna solo quando si è sicuri della complicità del pubblico, quando si può giocare anche con il proprio stereotipo senza temere l’aggressività dell’altro. Come diceva Slavoj Žižek, finché in Jugoslavia c’era una pace relativa, tutti facevano battute su tutti. Ma appena è scoppiata la guerra, l’umorismo si è spento: non si può più scherzare con chi ti vuole davvero distruggere.

Lei ha analizzato in profondità la complicità tra il potere e chi ride con esso: nel fascismo, questa risata cattiva non coinvolgeva solo chi la produceva, ma anche chi la condivideva, rendendo la società intera collusa. Oggi, meccanismi simili riemergono. Penso, ad esempio, alla campagna di comunicazione del partito di estrema destra tedesco “Alternative fur Deutschland”, contro gli immigrati, con i cosiddetti “biglietti di ritorno “: un gesto che si presenta come ironico, ma in realtà ha la stessa funzione di intimidazione e umiliazione delle pratiche fasciste.

Non è umorismo, è una forma di violenza mascherata da scherzo. È come dare un pugno e poi dire “stavo solo giocando”: ma il colpo resta. Non c’è spazio per la mediazione o la risposta della vittima, che anzi si sente minacciata e impotente. La risata che ne nasce è una risata sadica, non condivisa, e non c’è elaborazione intellettuale — solo crudeltà immediata. È un po’ come il solletico: finché chi lo riceve lo percepisce come un gioco, può anche ridere. Ma se l’intensità cresce e subentra la paura, la risata si spegne e lascia spazio al disagio. Così funziona la “falsa ironia” del potere: produce paura in chi la subisce e soddisfazione complice in chi la osserva, rivelando serbatoi profondi di aggressività sociale pronti a esplodere alla minima provocazione.

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